La procreazione medicalmente assistita (PMA), comunemente detta "fecondazione artificiale", è l’insieme delle tecniche utilizzate per aiutare il concepimento nei casi in cui il concepimento spontaneo sia impossibile o estremamente remoto e nei casi in cui altri interventi farmacologici e/o chirurgici siano comunque inadeguati. In Italia la materia è disciplinata dalla Legge n. 40 del 2004, la quale prevede l’utilizzo, in prima istanza, delle opzioni terapeutiche più semplici e meno invasive. Secondo quanto affermato dalla norma, possono accedere alla PMA le sole coppie sterili o infertili con componenti maggiorenni, di sesso diverso e coniugati o conviventi in età potenzialmente fertile. Si tratta di una legge importante, che nel corso degli anni ha subito diverse modifiche fino a raggiungere lo stato attuale. La prima pronuncia ad incidere sulla legge 40 è la sentenza n. 151 del 2009, con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'obbligo di un unico e contemporaneo impianto degli embrioni fecondati, in numero comunque non superiore a tre, per violazione dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza sanciti dall'art. 3 Cost., La Corte ha stabilito così il principio secondo il quale a decidere quanti ovuli inseminare sia esclusivamente il medico, d’accordo con la coppia, tenendo conto della situazione clinica, dell’età della donna e soprattutto introducendo il concetto di tutela della salute della donna, precedentemente ignorato dalla norma. In particolare la Corte Costituzionale ribadisce che il medico debba cercare di effettuare meno stimolazioni possibili. In questo modo viene reintrodotta – pur con qualche limitazione – la possibilità di congelare gli embrioni. Emblematica poi la sentenza n. 162 del 2014, con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità, oltre che del divieto di fecondazione eterologa (art. 4, comma 3) e della relativa sanzione amministrativa pecuniaria (art. 12, comma 1), anche dei profili riguardanti il divieto di disconoscimento di paternità da parte del coniuge o del convivente che ha prestato il consenso all’eterologa, nonché la previsione che il donatore di gameti non acquisisce alcun diritto né obbligo nei confronti del nato (art. 9, commi 1 e 3). La Corte in particolare sottolinea come il diritto di avere dei figli sia incoercibile e come, proprio con tale divieto, vengano colpite paradossalmente le coppie con una causa assoluta di infertilità, come l’assenza di ovuli o spermatozoi, creando una discriminazione tra le coppie infertili sulla base delle loro possibilità economiche, “che assurge intollerabilmente a requisito dell'esercizio di un diritto fondamentale, negato solo a quelle prive delle risorse finanziarie necessarie per potere fare ricorso a tale tecnica recandosi in altri Paesi”. La scelta di “diventare genitori e di formare una famiglia che abbia anche dei figli costituisce espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi” secondo i giudici, e questo vale “anche per la coppia assolutamente sterile o infertile”, che decida di procedere alla fecondazione eterologa. Invero, “la preclusione assoluta di accesso alla procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo introduce un evidente elemento di irrazionalità – si legge nella sentenza - poiché la negazione assoluta del diritto a realizzare la genitorialità, alla formazione della famiglia con figli, con incidenza sul diritto alla salute, è stabilita in danno delle coppie affette dalle patologie più gravi, in contrasto con la ratio legis”. Parimenti storica, la sentenza n. 96/2015 della Corte Costituzionale, che ha sancito l’accesso alla procreazione assistita per le coppie fertili con malattie genetiche trasmissibili, consentendo così la diagnosi genetica pre-impianto al fine di prevenire eventuali anomalie genetiche e impiantare dunque solo embrioni sani, sia per le coppie fertili che per quelle infertili. Particolarmente interessante e rilevante la più recente sentenza n.13000 del 15 maggio 2019, con cui la Suprema Corte di Cassazione ha affrontato l’inedito e delicatissimo tema della procreazione medicalmente assistita c.d. “postuma”. Tralasciando la questione relativa alla liceità o meno di tale tecnica in Italia, la Corte afferma che la parificazione ai figli legittimi, prevista dall’art. 8 della Legge n. 40 del 2004, per i nati a seguito di procreazione medicalmente assistita da entrambi i genitori viventi, deve valere anche per i nati da fecondazione omologa dopo il decesso del padre, anche se sono decorsi i trecento giorni previsti dall’art. 232 c.c. ai fini della presunzione di paternità del concepito. Ciò significa che in caso di nascita in Italia, conseguente ad una fecondazione omologa avvenuta all’estero, utilizzando il seme crioconservato del padre, deceduto prima della formazione dell'embrione, l'Ufficiale di stato civile competente debba formare l'atto di nascita con indicazione delle generalità di entrambi i genitori, attribuendo al nato il cognome del padre venuto a mancare, a condizione che chi renda la dichiarazione di nascita possa attestare che il defunto, in vita, avesse prestato congiuntamente alla moglie od alla convivente, il consenso, non successivamente revocato, all'accesso a tali tecniche, autorizzando così l'impiego post mortem del proprio seme crioconservato. Nel caso di specie, la Corte premette che eventuali considerazioni in merito all’illegittimità o meno, in Italia, della pratica di fecondazione omologa post mortem a cui la ricorrente si era sottoposta in Spagna (ove peraltro è permessa entro l’anno dal decesso di chi ha previamente acconsentito all’utilizzo del proprio seme crioconservato), sono prive di rilievo nel giudizio in esame, dovendo necessariamente arrestarsi di fronte all’evento nascita e alla tutela giuridica del nato. Una volta, cioè, che (come in questo caso), il figlio sia nato in Italia, la circostanza che tale pratica non sia espressamente disciplinata (o addirittura non sia consentita) non esclude, ma al contrario impone, l’applicazione di tutte le disposizioni inerenti lo stato del figlio nato all’esito di tale percorso, in modo da garantirgli la più adeguata tutela. L’impostazione della Corte muove da un proprio illustre precedente (sentenza n. 19599 del 30 settembre 2016) e trova conferma sia nella giurisprudenza della Corte EDU (sentenze c.d. “gemelle” Mennesson c. Francia del 26 giugno 2014, ric. n.65192/11 e Labassee c. Francia del 26 giugno 2014, ric. n. 65941/11), sia in quella della Corte Costituzionale, che a partire dalla pronuncia n. 347 del 1998 ha sottolineato l’esigenza di distinguere tra la disciplina di accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita e la preminente tutela giuridica del nato. Il moltiplicarsi di nuovi modelli affettivi e familiari, nonché la costante evoluzione delle tecniche procreative pongono l’interprete innanzi al delicato compito di risolvere le numerose questioni d’ordine giuridico e pratico che emergono dalla realtà e che involgono i diritti fondamentali della persona. Nonostante molti divieti contenuti nella stesura originale della legge non esistano più, restano, tuttavia, ancora vietate, in Italia, la procreazione assistita per le coppie omosessuali, invece consentita in molti Paesi europei, così come la gestazione cosiddetta “per altri” o “maternità surrogata”, ovvero il ricorso ad una donna estranea alla coppia che gestisce la gravidanza ed il parto per conto dei genitori intenzionali del futuro nascituro. Tale procedura è consentita in un numero limitatissimo di altri Paesi, soprattutto extra UE. E’ inoltre tuttora illecita la fecondazione post mortem con spermatozoi di un marito o compagno deceduto. Recentemente, al riguardo, è venuta in rilievo la battaglia di una mamma, e di un'intera famiglia, per riavere i gameti crioconservati preventivamente dal figlio poi deceduto prematuramente. Il ragazzo, affetto da un grave tumore, nel 2019 decideva di congelare i propri gameti presso l’Azienda ospedaliera universitaria di Careggi, dal momento che i trattamenti a cui era sottoposto potevano portare all'infertilità. Qui, come da prassi, firmava il consenso al deposito e con esso le condizioni: i gameti vengono infatti conservati per 3 anni, in questo lasso di tempo possono essere ritirati solo da lui altrimenti, scaduti i tempi o in caso di morte (come in questo caso) vengono distrutti. Morirà pochi mesi dopo, ma le sue volontà erano e restano chiare, scritte nero su bianco in un testamento olografo in cui autorizza la compagna di una vita con cui condivideva il sogno di creare una famiglia, a ritirare il campione di sperma. Il nodo della questione parrebbe essere contenuto nella legge numero 40 del 2004 che fissa le linee guida sulle procedure di procreazione medicalmente assistita. Questa, secondo la norma italiana, non può essere effettuata nel caso di morte di uno dei due membri della coppia. Il requisito essenziale per la procedura è che entrambi siano in vita. La donna, allo stato attuale, non può quindi dar seguito alla volontà sua e del compagno di provare a dare alla luce il loro figlio. Ma questo, eventualmente, sarebbe il passaggio successivo, come sostenuto dall’avvocato della famiglia. Prima c’è la consegna del liquido seminale e su questo la stessa legge non si esprime. Secondo il legale, la questione giuridica è ben distante dal problema del concepimento di un figlio da parte della fidanzata: “Qui stiamo discutendo di possesso, non di uso”. In primo grado, il Tribunale di Firenze gli ha dato torto, facendo valere la posizione di Careggi che rivendica la validità del consenso informato, firmato da Matteo, in base al quale sarebbe stato lui stesso, e non altri, a ritirarlo. La vicenda ingloba in sé numerosi e non risolti interrogativi. L’etica complica sicuramente le cose.