Nonostante siano numerose le disposizioni costituzionali, internazionali nonché comunitarie che tutelano la parità di trattamento e l'uguaglianza di genere, il lavoro delle donne risulta ancora fortemente colpito da discriminazioni.
La nostra carta costituzionale all’art. 37 Cost. stabilisce che: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”.
L’ordinamento italiano ha dato attuazione alle disposizioni costituzionali e a quelle comunitarie in primis con il D.Lgs. n. 198/2006, il Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, sul quale ha recentemente inciso la Legge 161/2021, ampliando le fattispecie della discriminazione diretta ed indiretta e specificando la nozione di “discriminazione”, intervenendo direttamente a integrale modifica del comma 2-bis dell’art. 25.
Il nuovo comma 2-bis individua infatti una discriminazione non solo in ogni trattamento, ma anche in ogni modifica dell'organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro che sia motivata non solo dallo stato di gravidanza, di maternità o paternità e dall’esercizio dei relativi diritti ma anche semplicemente dal sesso, dall’età anagrafica o dalle esigenze di cura personale o familiare e che ponga, o possa porre, il lavoratore in una posizione di svantaggio o anche meramente limitativa. L’innovazione legislativa è ricca di implicazioni, permettendo di sottoporre al vaglio del giudice decisioni inerenti sia i trasferimenti individuali sia le modifiche degli orari di lavoro.
Con la legge n. 162/2021 è stato inoltre istituito il sistema di certificazione della parità di genere, rilasciata, a decorrere dal 1° gennaio 2022, a tutte le aziende che dimostrino l’effettività e l’efficacia delle proprie politiche in tema di parità di genere tra uomo e donna. Le aziende che abbiano ottenuto la certificazione saranno esonerate dal versamento degli oneri contributivi, per un valore pari all'1% sulla generalità dei lavoratori dipendenti e fino ad un massimo di 50.000 euro annui.